L’editoriale del direttore
-di Alessandro Migliaccio-
“Dona un sorriso”.
Ho riflettuto molto su questa frase, utilizzata anche per spot di beneficenza. Poi, una di queste sere estive di fine giugno, rientrando a casa, ho deciso di donare un sorriso, nel vero senso della parola, ad un estraneo. Sapete quelle cose che vi fanno sentire meglio, che vi fanno sentire in armonia con gli altri, che vi fanno credere che un sorriso possa aggiustare tutte le cose. Donare un sorriso ad uno sconosciuto è un atto d’amore per la vita, un gesto che ti fa sentire in pace col mondo nonostante dentro e fuori di te ci siano tante guerre in atto. Mentre tornavo a casa ho visto un vecchietto seduto su uno scalino con un cap- pellino in testa, sembrava molto tenero. Mi ricordava mio nonno, buonanima. L’ho guardato e gli ho sorriso. Mi ha guardato anche lui e poi ha detto: “Guaglio’, devi parcheggiare?”. Mondo crudele. Non sapevo se ridere o piangere. Come mi ha ricordato un collega al quale ho raccontato l’aneddoto, c’è una scena simile nel film “Miracolo a Milano” scritto dal genio Cesare Zavattini (regia di Vittorio De Sica): il protagonista dice “buongiorno” a tutti quelli che incontra e uno lo aggre- disce: “ma io e te ci conosciamo?”. E la situazione ritorna nel finale a sorpresa del film: “verso un mondo dove buongiorno vuol dire davvero buongiorno”. Un capolavoro. Attuale, a quanto pare. La mattina dopo esco di casa ed assisto ad un’altra scena che mi ha lasciato senza parole. Un’ambulanza arriva a sirene spiegate sotto al mio palazzo. Una signora sta male. Medico e infermiere si preci- pitano con la barella vicino al portone. Io sto uscendo. Cercano sul citofono un cognome che non c’e’. Mi chiedono: “A che numero dobbiamo bussare per la signora Pincopallino (cognome inventato, ndr)”. Cerchiamo sul citofono. Non c’è. Man mano che passano i minuti arrivano altri condomini. Ma nessuno conosce quel cognome. Chiedo: “Ma e’ piazza immacolata xx?”. La replica secca: “Si, piazza Immacolata xx”. Cerchiamo ancora sul citofono. potrebbe essere qualche nuova inquilina. Ripeto per la seconda volta la stessa domanda: “Siete sicuri che è piazza immacolata ?”. “Si”. Intanto i minuti passano. Dopo un po’ l’infermiere caccia dalla tasca del pantalone arancione del 118 un foglietto. Lo legge, poi alza la testa. “Si, l’indirizzo e’ questo… piazza Leonardo xx”. Si guardano tra di loro, un attimo di sconcerto (avranno pensato di essere due idioti) e ripartono. Con un notevole ritardo ed un grande imbarazzo. Volevo regalare un sorriso ad uno sco- nosciuto e questo mi voleva spillare il “pizzo” sul parcheggio. Una signora sta male e i suoi soccorritori non prestano la dovuta attenzione all’indirizzo in cui lei si trova. Tutto ciò mi ha fatto riflettere sul concetto di cura degli altri. Il filosofo Heidegger fa una distinzione precisa tra l’aver cura e il prendersi cura. In tedesco “Besorge” significa “essere presso le cose, semplicemente presenti”, mentre “Fürsorge” vuol dire “aver cura degli altri”. La differenza fondamentale tra il prendersi cura delle cose utilizzabili e l’aver cura degli altri sta nel fatto che la relazione con le persone non può esaurirsi nella semplice presenza, ma si configura come un “essere con”, come una cura condivisa (Mitsorge), una cura “per”. Per sopravvivere, abbiamo bisogno di prenderci cura del mondo in cui abitiamo, ma anche e soprattutto “l’aver cura” è il modo di essere che noi abbiamo con gli altri quando effettivamente ci occupiamo di loro, rapportandoci con le preoccupazioni dell’altro.
A buon intenditori poche parole.
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