La magistratura napoletana e le inchieste sulla corruzione
Da quando lavoro per “Le Iene”, più di dodici anni ormai, è la prima volta che mi capita di assistere ad una situazione paradossale come quella che si è registrata a giugno. Eppure, ne ho viste di tutti i colori. Un paio di anni fa si registrò un triste boom di incidenti tra yatch in mare in alcune mete estive dell’Italia, che portò al decesso di diverse persone e ad operazioni di controllo più attente da parte delle capitanerie di porto in tutto il Paese. La nostra redazione, quindi, decise di approfondire l’argomento e basandoci su alcune segnalazioni che ci furono inviate da alcuni cittadini napoletani, decidemmo di occuparci delle patenti nautiche, riuscendo a dimostrare che in alcuni casi venivano concesse troppo facilmente: bastava pagare per comprare la patente e poter guidare uno yacht in mare. Visita medica ed esame erano pressoché un optional. E tutto questo non aiutava a ridurre il numero di incidenti in mare. In un servizio realizzato con l’inviato Luigi Pelazza con l’aiuto di un complice, Mirko Canala, venne documentato che tra Napoli e Pozzuoli c’era un giro di vendita patenti nautiche abbastanza sviluppato. Nel servizio si dimostrava che anche alcuni dipendenti in servizio presso la Capitaneria di porto di Pozzuoli erano coinvolti nel giro. I fatti denunciati interessarono alla magistratura napoletana che, grazie alla nostra inchiesta, ha potuto condannare corrotti e corruttori. Ma è incredibile ciò che è successo dopo perché, pur risultando chiaramente il servizio giornalistico finalizzato allo smantellamento di una rete di corruttela nel rilascio di patenti nautiche (a 3500 euro ciascuna), la Procura di Napoli ha incriminato per corruzione anche i giornalisti che avevano finto di essere interessati ad una patente, ne avevano ottenuta una ovviamente falsa e l’avevano consegnata ai carabinieri. Come sottolinea l’avvocato Carlo Taormina, “il messaggio che passa è che da oggi è inutile collaborare con lo Stato per combattere la corruzione perché i pubblici ministeri che dovrebbero essere grati ai giornalisti, invece li incriminano di concorso con i delinquenti che consegnano alla giustizia”.
Condivido il pensiero di Taormina. Se vogliamo che i giornali facciano inchieste e non “marchette” e che riprendano il loro ruolo di controllo e denuncia sulla corruzione e su altri temi, bisogna incentivare l’azione di chi, come noi autori delle Iene, già fa questo tutti i giorni rischiando in prima persona per documentare fatti e misfatti che si verificano in tutta Italia. Ad ogni modo, per fermare noi giornalisti che crediamo nel lavoro di indagine come strumento per dimostrare la verità dei fatti, ci vuole ben altro. Bisognerebbe solo eliminarci.
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