La colonna infame
A Milano, espressero avversione per quel simbolo di barbarie, personaggi come Cesare Beccaria (1738-1794) giureconsulto, con l’opera “Dei delitti e delle pene” quale principio della moderna legislatura penale. Ed in appendice ai “Promessi Sposi”, Alessandro Manzoni (1785-1873) nella “Storia della colonna infame” denunziava tale disumana condanna per i presunti untori della peste del 1630 – triste tradizione spagnolesca – sin dal 1545 a Milano, a Napoli, il malcapitato, colpevole d’insolvenza, condannato dai giudici della Vicaria del Palazzo di Giustizia a Porta Capuana, veniva legato ad una colonnina di marmo, con il sedere nudo, esposto all’ironia popolare con l’obbligo di pronunziare la sua colpa. Il 17 aprile 1546, il vicerè don Pedro Toledo abolì la brutale gogna, ma i continui violatori il 23 marzo 1585 costrinsero don Pedro Gison, su ordine di Carlo V, al suo ripristino. Il 30 marzo 1666 il cardinale Pasquale d’Aragona inasprì le condanne anche con pena di morte, nel periodo più buio della dominazione spagnola. Il 1778 Carlo di Borbone abolì questa pratica lasciando però esposto alla Vicaria, il macabro trofeo fino al 1860 quando fu fatto scomparire nei depositi di Castelcapuano. Dopo alcuni anni di oblio, la colonna infame fu posta presso l’androne delle carrozze del Museo di S. Martino a ricordo del triste passato.
di Mimmo Piscopo pittore
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