Il guerriero del Vomero
Intervista a Sergio Fermariello
Tra gli artisti napoletani più attenti a sviluppare un percorso creativo lontano dalle mode c’è Sergio Fermariello. Napoletano classe 1961, è famoso per i guerrieri, diventati icone del suo stile unico. Ha esposto per la prima volta nel 1989 alla galleria di Lucio Amelio. Nel 2009 gli sono state dedicate due personali al MAC di Niteroi in Brasile e al PAN di Napoli. L’anno scorso la sua opera Guerrieri-scrittura, è entrata nella collezione di MADRE di via Settembrini. Tra l’esordio e gli ultimi successi, decine di riconoscimenti. Fermariello l’estate l’ha passata a Santorini, in Grecia, «per trovare nuove fonti di ispirazione».
Ma tutto l’anno lavora in uno dei polmoni del Vomero, a villa Belvedere, dove ha lo studio, mentre vive con la famiglia vicino al Collana.
Fermariello, si sente un vomerese doc?
«I miei ricordi sul Vomero degli anni Sessanta, della mia infanzia, sono speciali, mi hanno sempre accompagnato, in qualunque parte del mondo io abbia esposto.
Da vomerese con il marchio DOP, aggiorniamoci, non posso dimenticare della mia generazione che viveva il quartiere come una sorta di piccolo villaggio».
In che senso?
«Il fascino del Vomero stava nel suo essere una enclave, nello stare separati dal mondo. Poi non c’era tutto questo traffico di macchine. Io e i miei amici giocavamo a pallone a via Vaccaro e ogni tanto ci dicevamo di fare attenzione perché stava passando quella rara macchina. Però il grande sacco già era avviato. In breve tempo si sono riempiti gli spazi di palazzoni e le strade di automobili».
La sua opera è stata influenzata dai natali vomeresi?
«Ha influito il vedermi accerchiato da una sorta di elemento persecutorio che per quanto mi riguarda, anche in termini familiari, è stato il cemento, quello che via via ha occupato sempre più spazio al Vomero. Una sorta di dimensione liberty floreale che nella mia sensibilità veniva accerchiata, circondata dalla speculazione selvaggia».
Un incubo
«Pensi che mio zio Carlo ha recitato nel film denuncia “Mani sulla città”, che mio nonno è stato il Sindaco di Napoli nel 1944 e ha battagliato per la ricostruzione del San Carlo con tanto di lapide nel foyer, evitando che ci costruissero attorno. Questo senso di soffocamento, di perenne minaccia di occlusione di spazi, di folla che spinge e impedisce la libera scelta, io lo ritrovo nel mio lavoro. Un pericolo estendibile a tutta la città, ma il Vomero è il paradigma più rappresentativo. Per questo mi sento molto vomerese e poi napoletano».
Che cos’è Napoli?
«La città che ha avuto in eredità il lascito delle sirene. Una città che canta per ammaliarti e, se riesce, senza scrupoli, per affogarti.
Ti trattiene, ti cattura, questa città ha una strategia, e per venirne fuori devi essere un po’ Ulisse. Le viscere della città, i suoi tentacoli, sono come il labirinto da cui è molto difficile uscire».
Difficile insomma scappare da Napoli?
«Molto, ma se ci si mette di impegno si può trovare la giusta ispirazione, per creare. E poi, anche se qualche volta sono riuscito, credo, a scappare, lei mi ha sempre riacciuffato».
Adesso a che sta lavorando?
«A una nuova frontiera, quella dei video. Ho portato un video sui bambini della Siria alla Rai, e sta andando proprio in questi giorni. Un corto di dodici minuti, un blob poetico su una tragedia dei giorni nostri. Poi sto progettando delle installazioni sui migranti, grazie all’aiuto dei droni, non per seguire la moda del momento però, già nel 1999 realizzai una installazione su un naufragio nel Mediterraneo».
Dove porterà queste sue opere?
«Al porto di Napoli. Luogo ideale».
Consigli per un giovane artista nato a Napoli? Meglio cercare fortuna all’estero o rimanere qua?
«Se sei una persona altamente spirituale, ossia se la desertificazione di comunicazione tutt’intorno a te ti suggestiona, va bene. Se invece vuoi un rapporto di mercato, i contatti giusti, allora Napoli non è il massimo. Anche se…»
Anche se?
«Comunque oggi con Internet e gli spostamenti veloci puoi andare dove vuoi in poco tempo. Il consiglio è capire quale può essere il tuo luogo ideale di macerazione per poi trasformarlo in strumento di creazione. La propria forza è la propria individualità. Mai perdere l’individualità che ci fa uomini singolari. Forse avrei dovuto rispondere che non esiste una formula per diventare artisti. Prima bisogna diventare sé stessi».
Ugo Cundari
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