Il disinteresse generale e la delega dell’individuo
E’ da mesi ormai che mi interrogo su un aspetto che mi lascia sempre molto perplesso: perché tra tutte le persone che si lamentano, poche o nessuna fa qualcosa? Dall’esperienza clinica come psicologo psicoterapeuta vorrei allargare la riflessione alla vita quotidiana, alla vita sociale, alla vita politica.
Personalmente faccio parte di alcune associazioni, che si occupano di temi tra loro diversi, ma spesso le domande che sento rivolgere sono sempre le stesse: “cosa pensa di fare l’associazione X in merito a questo problema?” “cosa pensa di fare l’associazione Y?”. Ciò succede anche in politica: “cosa pensa di fare il partito/movimento Z?”
In poche parole, tutti chiedono agli altri cosa fanno.
Pochi però chiedono cosa possono fare direttamente. Troppo pochi.
Vale la pena di citare quanto scrive Enzo Scandurra, professore ordinario presso La Sapienza di Roma, nel libro “Città morenti e città viventi”:
Se nel passato con il termine di marginalità s’individuava il processo sociale che escludeva molte persone dalla partecipazione attiva alle scelte e alle decisioni inerenti la vita pubblica, oggi, nell’epoca dei consumi e delle tecnologie avanzate, essa si è diffusa e stratificata ben oltre i gruppi deboli dei cittadini. Possiamo dire che essa riguarda, a diverso titolo e con diverse profondità, la maggior parte della popolazione cittadina poiché i singoli individui hanno sempre minore capacità di capire e controllare i meccanismi tecnologici, economici e finanziari che governano la loro esistenza. Cresce pertanto il meccanismo della delega: ai sistemi comunicativi, a quelli finanziari, a quelli economici, a quelli tecnologici fino a quelli politici, così come dimostrano le statistiche di coloro che, sempre di meno, si recano a votare. Il meccanismo della delega produce assuefazione e disinteresse della cosa pubblica: le macchine, i computer, le banche, gli amministratori sanno fare le cose meglio di quanto non sappiamo fare noi e, dunque, tanto vale affidare a loro gran parte delle decisioni che ci riguardano. A tutto questo si aggiungono i “sistemi esperti” che dovrebbero essere in grado di simulare il comportamento umano almeno in alcune circostanze, i “comunicatori” che ci spiegano e ci rassicurano su ciò che fanno i nostri governanti, i sistemi di “aiuto alle decisioni”, i consulenti finanziari, gli psicologi, i sociologi che nei dibattiti televisivi ci spiegano “chi siamo e perché ci comportiamo nel modo in cui ci comportiamo”. Insomma, all’individuo viene evitato per il suo benessere, d’interferire nei sistemi di governo, e nelle decisioni che riguardano la sua vita poiché Esperti e Macchine ne sanno più di noi.
Da qui probabilmente nasce lo scollamento sempre crescente tra le pratiche quotidiane di vita: fare la spesa, chiacchierare, perder tempo, leggere, parlare, abitare, passeggiare e i grandi sistemi e apparati politici, finanziari e tecnologici, scientifici che ci governano. ogni individuo assume sempre più il ruolo di utente, consumatore passivo di merci, informazioni, norme, tecnologie, spettacoli televisivi, grandi eventi. La vita quotidiana è sempre più connessa ai consumi: si esce di casa per acquistare merci, per recarsi in banca, per svolgere il mestiere di consumatori. Non a caso i grandi shopping-center si stanno dotando di spazi pubblici, sotto forma di piazze e piazzette artificiali, nei quali viene simulata anche una parodia di vita pubblica, ovviamente marginale e secondaria rispetto del puro consumo.
C’è poco da fare, nel corso di oggi l’individuo non si interessa. Un meccanismo perverso che mantiene gli individui anestetizzati, tranne quando compare un altro meccanismo, quello clientelare, in cui si chiede per piacere (o addirittura dietro compenso) quello che si dovrebbe avere di diritto. È la dura realtà!
Naturalmente c’è uno zoccolo duro di persone che resiste, che partecipa, che si fa sentire. Ma sono sempre di meno e sempre più demotivati.
Ci si muove tra il disinteresse e il desiderio, senza comprendere che questi due sono esattamente ciò che serve a mantenere la situazione stagnante e immutata..
Una delle patologie in cui il disinteresse è uno dei punti focali è la depressione.
Quando le sensazioni di tristezza, sfiducia e sconforto vanno al di là dello stress che le ha scatenate e/o diventano intense e gravi al punto da alterare le normali funzioni del soggetto, allora si è probabilmente di fronte ad una malattia depressiva. Infatti, i soggetti potrebbero non essere affatto tristi quanto piuttosto sentirsi apatici, svuotati, senza speranza, con la convinzione che tutto, amare, vivere, lavorare, sia inutile perché tanto ha una fine. È come vivere in una sorta di buco nero. Il pessimismo e il disinteresse verso tutto e tutti sono tratti comuni a tutte le situazioni di depressione. Le emozioni tipiche sperimentate da chi è depresso sono la tristezza, l’angoscia, la disperazione, il senso di colpa, il vuoto, la mancanza di speranza nel futuro, la perdita di interesse per qualsiasi attività, l’irritabilità e l’ansia.
Non potremmo allora affermare che siamo una popolazione depressa? Io penso proprio di si.
Tante volte giriamo le spalle perché sembra che il problema riguardi un altro, ma non è così. Le vite di tutti noi sono intrecciate e risolvere anche un solo piccolo problema di un altro può restituire dignità al mondo in cui viviamo. L’unico modo per riuscire ad uscirne è riguadagnare, riscattare, ognuno di noi, i diritti e i doveri, che inevitabilmente si intersecano, rispetto alla vita, quotidiana e non.
Allora, quando ci sarà l’impulso di lamentarsi di qualcosa che non va, iniziamo a chiederci: cosa posso fare, io, adesso? E vi assicuro, da fare c’è tanto, ma sembra che nessuno sia più disposto a sporcarsi le mani.
Luca Pizzonia
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