Antonio Mancini, orgoglio di chi abita in questa piccola strada
Alle spalle di Piazza Fuga, silenziosa e residenziale, via Mancini ci riporta alle immagini di un artista che ha consacrato all’arte la sua vita. Vita difficile, fin dalla nascita. Figlio di un sarto e di una mamma, che arrotondava il bilancio di famiglia affittando qualche camera, il ragazzo si forma fra mille disagi. Non escluso quello di una diffusa e permanente patologia, che lo costrinse a due ricoveri in ospedale psichiatrico, ma anche a due coraggiose fughe a Parigi, senza alcuna copertura finanziaria. Nel suo recente studio su Mancini, Domenico Di Giacomo, illustre clinico e appassionato collezionista della nostra pittura, l’ha definito un artista di respiro mondiale, sino a segnare con la propria ricerca i futuri percorsi dell’arte, fino alle avanguardie. Perché Mancini fu anzitutto l’inventore di quella luce che non nasceva dall’esterno (d’impronta caravaggesca, per capirci) ma dallo stesso pigmento pittorico. Una tecnica ai confini di una costante e sofferta ricerca. E qui i riferimenti vanno da Piero della Francesca a Turner a Van Gogh. Questo, tuttavia, non solleverà Mancini e la sua pittura dal peso di una vita priva di meritati riconoscimenti. E a nulla varrà che due colossi dell’arte napoletana come Vincenzo Gemito e Stanislao Lista, suoi cari amici, lo considerassero un vero e proprio genio del colore. Come d’altra parte lo considerava il più grosso collezionista dell’epoca, Du Chene Vereche, e non pochi critici e collezionisti. Ma Mancini era eternamente insoddisfatto, e pur di caricare di luce la materia, come avviene nelle sue ultime opere, spesso inseriva nell’impasto cromatico frammenti di materiali lucenti. È ovvio che così facendo, benché ignaro, stava anticipando di molto tempo la pop art. Ma forse non si è mai accorto di aver toccato le più alte vette dell’arte anche a dispetto di un’esistenza povera. Le opere del primo periodo di Mancini come “il piccolo saltimbanco” e “il prevetariello” costituiscono uno studio profondo di disegno, di colore e di luce. Poi mano a mano – come ben si vede nell’olio su tela “Aurelia con i fiori e il broccato rosso “ (100x 59,5 cm.) – l’impasto cromatico prende il sopravvento e la tela si sostituisce in questo mix alla tavolozza. Forse è proprio questa sua identità cromatica ad allontanare anche i più scaltriti falsari, rischio al quale sono stati esposti gran parte dei pittori del nostro Ottocento.
Camilla Mazzella
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