A Zeppola
di Mimmo Piscopo pittore
La zeppola rimane ancora oggi sinonimo di primavera, che rappresenta specialità tutta napoletana, insieme ad altre note leccornie della cucina partenopea, il cui, probabile, anonimo diffusore ebbe benemerenza tale da meritarsi un possibile monumento la cui epigrafe sarebbe stata: “Napoli inventò le zeppole/ tutta Italia se ne leccò le dita/ il consiglio comunale pose questo monumento” dove la fantasia di legittimazione è rimasta nella classica tradizione partenopea come la celebrazione di date quale il 19 marzo, San Giuseppe. Insieme ad altre golosità, la zeppola è nota sin dagli antichi con il nome di “zippulae” e dal tardo latino “cymbùla” (S. Zazzera); frittella impastata ed arrotolata calda nello zucchero, dominava nelle cucine nei tipici padelloni colmi di olio bollente che ancora oggi rimane dolce arricchito anche da crema e da ciliegie amarena, dove la consuetudine ascrive la creazione della provenienza, insieme alla storica “sfogliatella”, alle monache della costiera amalfitana, poi alla adozione ed alla diffusione al solito Pintauro.
A tale proposito esiste una folta letteratura che ne esalta qualità e quantità di come essa, la zeppola, viene glorificata a seconda la zona o la contrada dove viene prodotta, il cui ingrediente è universalmente composto dalla manipolazione di farina ed uova la cui fantasiosa variante sempre a forma di ciambella circolare, si compone anche di semola e di riso, meno diffusa di quella tradizionale, gradita senza limiti per tutto l’anno. Tra i tanti, numerosi mestieri, le cui memorie sono irrimediabilmente scomparse, tranne in nostalgiche rimembranze, il toponimo di colui che manipolava abilmente questo dolce alimento, era il “zeppelajuolo” che invitava gli astanti a servirsene, nonostante ardenti scottature, mentre friggeva nel suo padellone, all’aperto, in strada o fuori del suo uscio, quale imbonitore simile al “pizzaiuolo” ed in sorta di “pazzariello”, invitava a “oggi a otto”.
Nei trattati di culinaria, vi si pone Bartolomeo Scappi, capo cuoco di Pio V° nel 1500 che, durante un pranzo offerto all’imperatore Carlo V°, porse questa pasta di farina gialla, il cui compiacimento fu così gradito, da diffonderne ampiamente la ghiottoneria. (R. Andreoli). Nel 1600 G.B. Basile nel suo “Pentamerone” non trascura questo dolce simbolo della generosa cucina napoletana, come tanti altri, con dediche, egloghe, strambotti e versi di storici e poeti, il Perrucci, Emanuele Rocco, De Bourcard, Ferdinando Russo, Mario Stefanile ed il nostro contemporaneo Renato de Falco che la definisce “dolce leccornia” oscillante nel gusto, tra “paste cresciute”, “scagliuozze” e bignè, dal dolce o salato, il cui comun denominatore è sempre l’olio bollente che accoglie tanta fantasia di composti, dove la temperatura porta ad incandescenti bocconi per problemi alla deglutizione e, per creazione della fantasia popolare, si riferisce a chi presenta difficoltà di pronunzia nel dire “Tene ‘a zeppola ‘mmocca”, dimenticando peraltro, l’antica e simpatica tradizione, quale prosieguo di Befana, alla ricorrenza del santo Falegname, appunto, S. Giuseppe del 19 marzo, con doni artigianali e simpatici giocattoli rigorosamente di legno, dal triste oblio, per l’invasione di tecnologiche e sofisticate diavolerie senz’anima.
Ma questa è un’ altra storia.
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