Autolesionismo: quando un adolescente si taglia
Quello dell’autolesionismo è un comportamento molto diffuso nel periodo adolescenziale ed è un fenomeno in crescita; si manifesta inizialmente intorno agli undici-tredici anni, soprattutto tra le ragazze. Ma cos’è praticamente l’autolesionismo? È la pratica del tagliarsi (cutting) la pelle con forbici, lamette, pezzi di vetro o altri oggetti affilati; è una pratica deliberata e ripetitiva, senza l’intenzione di uccidersi. A volte, al posto dei tagli, ci si marchia la pelle con un ferro rovente (branding) oppure ci si procurano bruciature con le sigarette (burning), lividi, escoriazioni. Alla base c’è l’illusione di un sollievo: dare una forma fisica ad una sofferenza interiore. Gli individui si tagliano per sentirsi meglio, perché l’angoscia che spesso sperimentano è troppo intensa e insostenibile. Per altri invece diviene un modo per percepirsi vivi piuttosto che inutili, vuoti o non sentire nulla. Diventa, in fondo, un modo per abbassare una estrema tensione. Chiaramente è una modalità disfunzionale, il problema è che l’individuo è riuscito a trovare soltanto questa e non è in grado di trovarne altre, più mature ed efficaci. La difficoltà, inoltre, è quella di dare parola alla sofferenza, riuscire a spiegarla, a raccontarla. Ecco che le cicatrici e i segni sono la prova di tale sofferenza. Come può un genitore accorgersi che un figlio si taglia? Bisogna considerare, prima di tutto, che chi utilizza questa pratica cerca di tenerla nascosta e di mantenere il segreto. Ma esistono una serie di segnali che possono rivelare questo comportamento e fare da campanello d’allarme: macchie di sangue sui vestiti; vestiti non adeguati alla stagione (ad esempio, indossare soltanto magliette e camicie a maniche lunghe in piena estate); possesso di oggetti taglienti come forbici, coltellini, aghi, vetri, rasoi e lamette; ferite, lividi e tagli non spiegati. Inoltre, ci sono comportamenti che possono far riflettere: passare molto tempo in bagno; irritabilità; eccessiva rabbia; umore depresso; intolleranza alle forti emozioni; scarsi legami sociali; disegni e scritti con temi ricorrenti sulla tristezza, sul dolore, etc. Cosa si può fare? Sicuramente non ridurre tali comportamenti alla richiesta di attenzione, né colpevolizzare, minacciare o reagire con sdegno e disgusto. La persona sta sperimentano una profonda sofferenza e questi gesti consentono di avere un minimo di conforto e ridurre la tensione. E certamente non ne va fiera e, con molta probabilità, se ne vergogna. Per aiutare un figlio o un amico bisogna soprattutto offrirgli sostegno, senza giudicare e senza utilizzare ultimatum o punizioni: se fosse così facile smettere, l’avrebbe già fatto. Può essere aiutato a riconoscere quelle emozioni negative e a gestirle in maniera differente, a comprendere che questi gesti racchiudono una sofferenza molto profonda e che è possibile uscirne, con l’aiuto di uno specialista.
di Luca Pizzonia – Psicologo / Psicoterapeuta
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