Il “mobbing” verticale e quello orizzontale
di Gabriella Orsi – Avvocato
Il fenomeno del c.d. “mobbing” va inquadrato nel più ampio tema della debolezza economica e sociale che strutturalmente investe la figura del lavoratore dipendente, spesso inserito in realtà d’impresa o comunque organizzative di dimensioni medio-grandi. Il termine “mobbing” deriva dal verbo inglese “to mob” – aggredire, accerchiare – che indica un peculiare modo di aggressione adottato da alcune specie animali nei riguardi di un membro del branco al fine di provocarne l’allontanamento. Nel mondo animale il mobbing è un meccanismo di difesa mediante il quale un gruppo mantiene la sua omogeneità espellendo il “non simile”. Nella realtà lavorativa, il termine “mobbing” ha di recente mutato accezione, se in passato designava semplici conflittualità endogene ad ogni contesto in cui si sviluppano forme di dialettica e di confronto (cd. mobbing semplice), oggi indica una serie di condotte sistematicamente intese all’emarginazione e, poi, all’eliminazione di un soggetto dall’ambiente di lavoro (cd. mobbing mirato). Nella nozione di mobbing sono ricondotte due tipologie di comportamenti, a seconda del soggetto che pone in essere il contegno lesivo: il mobbing verticale, posto in essere dal datore di lavoro; il mobbing orizzontale, posto in essere da colleghi di pari grado del soggetto mobbizzato. Il “mobbing” è un fatto illecito fonte di responsabilità civile (contrattuale e/o extracontrattuale a seconda dell’autore della condotta lesiva) e, nei casi più gravi, anche di responsabilità penale, ad esempio, per i reati di ingiuria, di percosse, di lesioni, di istigazione al suicidio. Il mobbing si può presentare con modalità differenti, infatti, non necessariamente i singoli comportamenti che lo integrino devono risultare di per sé illegittimi, ben potendo venire in rilievo condotte che, singolarmente considerate, appaiano lecite, ma che ad una valutazione complessiva si presentino espressione di un disegno unitario volto all’emarginazione del singolo lavoratore. Tuttavia, non tutte le condotte disgreganti e non tutte le dinamiche conflittuali si traducono in un fenomeno di mobbing, ciò in quanto la competizione e la dialettica sono alla base della realtà lavorativa, in cui si assiste al confronto fra persone portatrici di distinti interessi ed esigenze speculari. Allora ben si può comprendere quanto complesso sia tale fenomeno e le difficoltà che l’interprete incontra nel suo accertamento, ai fini del quale si richiede: un elemento oggettivo, consistente in un incessante e continuo reiterarsi di comportamenti odiosi ed alienanti perpetrati ai danni di un lavoratore e protesi all’emarginazione dello stesso, mediante la mortificazione delle sue doti umane e professionali, idonei a rendere la prestazione lavorativa penosa e non gratificante ed il lavoratore oggetto di frustrazioni, complessi di inferiorità ed inadeguatezza; un elemento soggettivo, il c.d. animus nocendi ossia l’intenzionalità di escludere il lavoratore dalla realtà organizzativa dell’azienda o dal contesto lavorativo di appartenenza; il fattore temporale, vale a dire un arco temporale significativo entro il quale tali condotte si sviluppino e si succedano, in modo da non trattarsi di un contegno meramente episodico, bensì di una condotta che si articola in modo sistematico nel tempo; il danno ingiusto ovvero il pregiudizio cagionato al lavoratore, il quale a seguito del reiterarsi delle condotte di mobbing subisca una lesione della sua dignità professionale e della sua individualità, nonché, nelle ipotesi più gravi, anche dei cd. diritti inviolabili espressamente riconosciuti e tutelati dalla Costituzione. Ne consegue che ove non siano riscontrabili tali requisiti non potrà configurarsi la fattispecie di mobbing, ciò tuttavia non esclude che la condotta sia rimproverabile alla luce di una diversa disposizione di legge.
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