Per una nuova socialità
di Raffaele Iovine
La storia della civiltà moderna, superata la fase della contrapposizione ideologica, si è arricchita negli ultimi decenni di importanti contributi. Si può dire che grazie al pensiero moderno sia totalmente cambiata la prospettiva entro cui oggi collochiamo i rapporti tra il soggetto pensante ed il mondo che lo circonda. Se in quello medievale essiobbedivano a criteri statici, immutabili, fissati una volta per tutte ab aeterno, ci si rese conto ben presto che la mente umana, limitata ed imperfetta, se non era in grado di cogliere la complessità della natura poteva quanto meno assumere rispetto ad essa una posizione dialettica, non fideistica ma problematica e collaborativa secondo una griglia di valori che può cambiare continuamente. Il dinamismo e non la stasi divenne il nuovo imperativo categorico del modo moderno di guardare ai fenomeni naturali. In conseguenza, cominciò a vacillare la coincidenza tra mens e res, cui la Provvidenza divina avrebbe affidato la fonte di ogni conoscenza. Tuttavia, al di qua delle Alpi, l’aggiornamento delle mentalità non avvenne in maniera né pacifica né indolore. Il passaggio dal culto delle (false perché indimostrabili) “essenze” al culto delle (vere perché documentabili) “esistenze” materiali, bestiali fu decisamente tormentato. Molti intellettuali, soprattutto meridionali (Bruno, Campanella, Giannone), furono martiri delle loro idee e subirono dure, a volte atroci,persecuzioni. Ma fu grazie a due italiani, Lorenzo Valla e Niccolò Machiavelli, entrambi squalificati dalla cultura idealistica, se alla fine del ‘400 i nuovi itinera del pensiero critico, dai contenuti fortemente sociali,approdarono a maturazione. Ma le loro idee non poterono essere accolte dall’Uomo di Guicciardini, così un grande genio italiano, Francesco De Sanctis, intese squalificare come cinico, asociale, fazioso l’ambiente culturale italiano del Rinascimento, di cui la miope politica del carpe diem di Lorenzo il Magnifico fu segno evidente. Esse trovarono invece recettori intelligenti e sensibili nel paese che meglio aveva saputo esprimere, già a partire dalla seconda metà del primo millennio, una sintesi efficace di coesione politico-religiosa e di armonia intracetuale: la Francia. La monarchia di quello Stato, cristianissima ed accentrata, fondata su basi celtico-galliche, aveva saputo per prima reagire efficacemente alle paralizzanti anche se rassicuranti pulsioni dogmatiche medievali, idealistiche ed assolute, ed aveva saputo assimilare già all’inizio del secondomillennio soprattutto con Abelardo e Jean de Paris irisultati teoretici del probabilismo, del problematicismo e dello scetticismo moderni.
Dissodato il terreno dalle vecchie scorie ontologiche ed essenziali, i machiavelliani Montaigne, Charron, Pascal, La Rochefacauld ebbero gioco alquanto facile a diffondere al nord delle Alpi quelle soluzioni moderne, non più aprioristiche e deduttive, che sarebbero culminate alla fine del XVIII secolo nel Contratto sociale di Rousseau e nella grande, epocale Rivoluzione. Sul piano religioso, le nuove idee furono assimilate dalla Riforma protestante e dal puritanesimo. Ma il calvinismo più che il luteranesimo seppe tradurre in precetti pratici la nuova sensibilità moderna, mondana, fallibile ma autentica. Da quel momento in poi ebbeinizio una nuova storia, i cui effetti benefici sulla formazione delle nuove mentalità sono stati rallentati dalla lunga fase della Restaurazione (1815-1945) ed in Italia bloccati da chi aveva interesse a rinnovare le vecchie sintesi medievali nelle forme di un laicismo Assoluto, hegeliano e neohegeliano, ostative di qualunque dubbio e preclusive di qualunque dialogo. Cosa abbiamo in fondo da discutere se il Reale non si discosta mai dal Razionale e viceversa? Ancora una volta nomina sunt res! Eppure italiana, come si è detto, fu la strada della modernità, i cui frutti altri paesi seppero far maturare precocemente.
Il vecchio impianto metafisico, come è oggi ben noto, era riemerso alla fine dell’800 dopo l’umiliazione prussiana di Napoleone III ad opera di Bismarck (il superuomo nietzschiano). Di quelle categorie ontologiche del pensiero, che già in età medievale aveva preteso di imporre la Verità pescandola dai meandri torbidi della coscienza e dello Spirito, anche il nostro paese si invaghì profondamente all’inizio del secolo scorso, ad eccezione di pochi ed avveduti intellettuali che invano tentarono di denunciare i rischi insiti in quegli eccessi ideologici e ne previdero gli sbocchi catastrofici. Essi al contrario suggerirono di guardare alle soluzioni più moderate, sociali, relative e progredite del pensiero. Indirizzo che fortunatamente dopo la caduta del Muro si è affermato come il più valido ed efficace e quasi universalmente adottato. La modernità ci insegna che solo nel segno dell’autenticità, verso cui la politica italiana mostra ancora sintomi di arretratezza cosmica, la ragione può esprimere le sue più espansive, produttive anche se limitate capacità. Nella difesa dell’interesse a voler capire e a voler respingere come forma di corruzione mentale ogni cosa che non sia provata dall’esperienza, i migliori ingegni del passato ci hanno indicato le soluzioni ad oggi più convincenti: critiche, moderate e mai faziose. Questi furono e sono gli insegnamenti del pensiero progressivo: diffidare delle posizioni previe, non collaudate e fonte di inquinamento mentale; educare i giovani all’uso più razionale degli strumenti intellettuali di cui dispongono senza mai coartarne le ambizioni, segno anche di libertà e di curiosità creativa; affidare alla socialità e non alla metafisica le sorti del destino, incerto e precario, di un popolo.
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