Ricordando “Eleonora” e il suo martirio
Eleonora Pimentel Fonseca
Onorare la memoria dei grandi uomini, cioè di coloro i quali con l’ingegno, con il valore e con il sangue hanno illustrato la patria, è dovere di un popolo civile.
Il 20 agosto ricorre l’anniversario della morte di Eleonora Pimentel Fonseca, martire della Repubblica Napoletana del 1799. Portoghese, spagnola, nata a Roma, ma divenuta napoletana fino al sacrificio. Resa forte dalle sofferenze di un matrimonio sbagliato e dal dolore per la morte del suo unico figlio. Donna egregia, tra i più belli ingegni d’Italia, autrice del “Monitore” ed oratrice fecondissima. Un’intellettuale di non comune virtù, di gran lunga superiore ai tempi nei quali è vissuta, che andò delineando un pensiero di progresso, antimonarchico, repubblicano e laico, per liberare il popolo napoletano dal potere borbonico.
Era il 18 agosto del 1799, Eleonora viene trasportata dal carcere della Vicaria al Castello del Carmine. Le carceriere le tolgono la sua biancheria e le fanno indossare un camicione e sotto l’abito la lasciano nuda (Colletta, Nardini, dai Bianchi della Giustizia). “Le si negò scandalosamente di poter indossare le mutande attesta il D’Ayala”. Un monaco le si avvicina, ma lei gli risponde che non ha colpe da confessare e che preferisce recitare da sola Sant’Agostino. Chiede, invece, che le venga data una fettuccia per legare i lembi del suo abito nero, affinché il suo sesso non venga reso visibile quando il corpo sarebbe stato penzoloni dalla forca. Ma la carceriera fa cenno di no. La perfidia dei nemici vuole che ella divenga simbolo indegno per tutte le altre. Il 20 agosto del 1799 alle ore 18,05, dopo aver bevuto una tazza di caffè come suo ultimo desiderio, Eleonora viene condotta al patibolo. Rifiuta la benda, rifiuta ogni sostegno. Avanza con dignità sui ciottoli viscidi del vicoletto dei sospiri. Una forza eroica traspare dal suo incedere, come a voler svalorizzare la morte per meglio insultare il tiranno. La piazza è già addobbata a festa, con fuochi d’artificio, con palloni colorati e con bancarelle di zeppole e di zucchero filato. I suoni dei tamburelli si sentono nell’aria. Già tutti mangiano e ridono per la festa offerta dal buon cuore del Re Ferdinando. Tanti sono gli sciaraballi ricolmi di popolani giunti dalle campagne per assistere alla festa serale. Le terribili popolane, con i loro corpi sfatti, enormi, deformi, uscite dai meandri dei loro immondi bassi, gridano a squarciagola: “viva viva lu papa santo ca ha mannatu i cannoncini p’ammazzà li giacubbini”. Eleonora sale sul palco insanguinato, dove giacciono i corpi decapitati o impiccati dei suoi compagni. Non trema, li guarda ed è a questo punto che li saluta con un verso di Virgilio: “Forsan et haec olim meminisse juvabit”: e forse un giorno gioverà ricordare tutto questo. Il Boia annuncia: “Chesta è Eleonora Pimentella, una volta marchesa e adesso rea di Stato”, e la folla gli risponde canticchiando
A Signora Donna Lionora
Che alluccava ncoppo ‘o triatro
Mo abballa miezo ‘o mercato
Viva la forca ‘e masto Donato
Sant’Antonio sia lodato.
Masto Donato temendo i tumulti le si butta addosso e le spezza il fragile collo. Poi si scopre il capo dalla berretta rossa e grida: “Viva il re” e la folla gli fa eco: “Viva o Rre”. La figura di Eleonora ora pende dalla forca, le lazzare minacciose si avvicinano per curiosare sotto la veste di lei. Ma il cielo ha pietà di questo scempio. Una forte pioggia, preannunciatasi con un forte boato, fa tremare la folla in piazza, che, superstiziosa, fugge per il pianto torrenziale del cielo. Sembra il rimprovero celeste, la rabbia divina scatenatasi sulla plebe, paralizzata dalla superstizione.
Eleonora è morta ma il suo esempio di vita e il suo accorato appello alla giustizia e alla libertà resteranno per sempre un monito di speranza e luce per un mondo migliore.
Ersilia Di Palo
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